Mese di ritorni, rientri, nuovi inizi.
Per molti il vero capodanno.
Anche per me è senz'altro sempre stato così.
Che Gennaio in fondo è solo un breve intermezzo, se ne sta lì, freddo e ancora buio, a guardare da entrambi le direzioni i giorni che vanno e quelli che vengono.
Ma a Settembre il vento di cose nuove soffia molto, molto più forte.
Settembre alla porte, un anno fa.
Avrebbe portato una marea, affatto placida di eventi e disavventure, di cambiamenti e turbamenti.
Iniziato con un matrimonio da festeggiare, gioia e entusiasmo improvvisamente messi a tacere da un infortunio in famiglia, nulla di troppo grave ma la paura, il ricovero, l'intervento hanno aperto uno squarcio grigio in quelle giornate luminose.
La partenza per il mare, per l'adorata Maremma, nonostante tutto, con i bagagli carichi di costumi e sensi di colpa.
Ma non si poteva non andare, no.
C'era bisogno del mare per cullare i nostri sogni e riposare le nostre braccia.
Serviva il sole per scaldare la nostra pelle e asciugare le lacrime.
Si doveva partire, anche se per poco.
Perché un' estate passata a fare scatoloni e a dipingere muri, a provare materassi e scegliere frigoriferi stanca e spossa, l'animo e il fisico di chiunque.
Specialmente quando l'estate in questione è la più calda degli ultimi 50 anni, o almeno così dicevano.
E perché, per strani giochi del caso, ogni volta che ho messo piede in una casa nuova, l'ho fatto il giorno successivo al rientro da un viaggio.
E quando le tradizioni nascono così spontanee, non si può fare a meno di onorarle.
Tornati dal mare abbiamo passato una notte, una sola notte, a Casavecchia.
E il giorno dopo, stanchi dal viaggio, abbiamo caricato la macchina delle ultime cose.
Una domenica frenetica, a svuotare e riempire e svuotare, a salire e scendere scale, io al centro di quel caos guardavo attorno a me la casa svuotarsi degli ultimi segni del nostro passaggio tra le sue mura.
Mura grosse, robuste, antiche.
Che tante vite han vissuto e hanno sentito i pianti dei miei figli, le loro risa, visto i primi passi e le prime marachelle.
Quella casa, tutta di legno e pietra, calda e avvolgente, che mi ha vista diventare madre.
Quella casa, che non è stata solo dimora.
Era buio quando ormai eravamo pronti per andare, definitivamente.
Siam passati in cucina a salutare.
Erano quasi tutti lì, ad apparecchiare la grande tavola e a cucinare la cena.
Ci siamo abbracciati. E ho pianto.
E ho pianto in macchina, fino a Casanuova.
E ho pianto la notte.
E credo di aver pianto tutto l'autunno. In silenzio, tra me e me.
Poi piano piano Casanuova ha iniziato a diventare Casanostra e il pathos dell'addio ha lasciato posto alla consapevolezza che avevamo fatto la scelta giusta.
Gli ultimi giorni a Casavecchia hanno il sapore dolce e languido della nostalgia.
L'amarezza delle opportunità che vedi allontanarsi, perché non hai saputo coglierle.
O perché non ti si sono mostrate a sufficienza.
O perché non era il momento, non era il luogo, non era il caso.
Gli ultimi giorni a Casavecchia li ricordo luminosi e ovattati dalle nuvole di polvere che alzavamo ad ogni cassetto svuotato.
Caldi e appiccicosi, con la campagna attorno gialla ed arida che aspettava pioggia.
Che alzava anche lei nubi di polvere ad ogni piede che le passava sopra.
Trascorrevo le giornate lì, con i bimbi, cercando di far passare loro il tempo nei migliore dei modi, chè non avrei voluto per loro un'estate così poco leggera.
Intanto Paolo consumava le ferie imbiancando pareti e stuccando buchi.
Io riempivo scatole di oggetti e quesiti.
Molte scatole sono state svuotate, altre sono ancora mezze piene.
Alcune sono ancora chiuse.