Erano sedici anni che non mettevo piede a Rennes.
Era la fine di dicembre del 2001.
Un vecchio treno-notte da Venezia a Parigi e un nuovissimo Tgv dalla capitale francese a quella Bretone avevano portato me e una piccola combriccola di amici a passare il capodanno lì, ospiti di un'amica.
All'epoca di quel freddissimo dicembre non mettevo piede a Rennes da tre anni.
Era il marzo del 1998, roba dell'altro secolo, e dell'altro millennio.
Un aereo da Venezia a Parigi e un pullman dalla capitale francese a quella bretone avevano portato me e due classi di liceo, con annessi insegnanti, fino a lì, per uno scambio culturale di una settimana con altre due classi del liceo della città: l'Emile Zola, un edificio storico stupendo, soprattutto agli occhi di una come me che all'epoca frequentava una scuola nuova e modernissima, e non solo nella struttura per fortuna, fatta di cemento, vetro e acciaio.
In quei sette giorni avevo abitato a casa della mia corrispondente, conosciuto la sua famiglia, preso il bus con lei, ascoltato tanta musica assieme, frequentato la sua scuola, assaggiato un po' di quella vita, lassù in quell'angolo di Francia in odor di oceano e tradizioni celtiche.
Ci sono tornata per questo capodanno a Rennes, complice l'invito dell'amica di cui sopra e un'offerta di una compagnia aerea, ("i bambini viaggiano gratis" può avere davvero un suono angelico alle mie orecchie) colta al volo ancora a metà maggio, mentre eravamo a Porto (uno dei momenti più belli della mia vita, da archiviare sotto la voce "viaggiare di più e viaggiare a meno")
L'ho trovata come l'avevo lasciata: piccola, vivibile, bella e sbilenca.
Con in più una linea di metropolitana veloce ed efficiente, che la rende ancora più vivibile.
Ora ci sono tre o quattro motivi per cui amare Rennes.
O per lo meno son quelli che la fanno amare a me.
Galettes e sidro.
E sidro e galettes.
E galettes e sidro, e sidro e galettes...
Se qui in Italia potrei benissimo vivere di pizza, lì potrei benissimo vivere di galettes. E sidro.
Altra cosa: i palazzi.
Le finestre.
Le facciate.
Deliziosamente sbilenche.
Per una come me che ama i vicoli sgarrupati di certi piccoli paesi del sud Italia, del Portogallo, dell'Andalusia, questa versione legnosa e calda, nordica e con i tetti in ardesia mi incanta.
E mi fa girare la testa.
Mi affascina vedere questi palazzi addossati l'uno sull'altro, il gioco di piani e finestre che crescono l'uno sull'altro.
Le tinte scure, ma caldissime.
Il legno consumato e vissuto, come la migliore delle vecchie credenze che potreste trovare a casa di una vecchia zia.
Ho amato la sua sobrietà, anche in un momento di luccicchio festoso come questo.
La giusta misura nell'addobbare senza snaturare.
La giusta misura tra l'essere una città ricca di tradizioni (sono celtici, capite bene che qui le tradizioni sono cosa importante) ma senza cadere nella caricatura di sè stessa.
La giusta misura tra essere classica e moderna allo stesso tempo.
La giusta misura nell'essere una città piccola, ma grande.
La giusta misura nell'essere meravigliosamente sbilenca.
(la curiosità di sapere chi viveva qui, e ha disegnato questa deliziosa vetrata)
(questo locale era chiuso, mannaggia. Era chiuso tutto un po' a dire il vero, visto che eravamo lì domenica e lunedì, e lunedì era capodanno)
C'erano un paio di caroselli, in due piazze diverse.
Uno vecchio vecchio vecchio, autenticamente vintage.
E questo nelle foto sopra, decisamente non vecchio, ma indiscutibilmente affascinante.
Ma nulla, davvero nulla di che in confronto alla giostra che avremmo visto un paio di giorni dopo a Nantes.
Ma questa è un'altra storia, un po' più in là sulla mappa.
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