L'ultima domenica di settembre, o la prima di ottobre, salvo particolari condizioni climatiche avverse che costringevano ad anticipare o posticipare l'evento.
Perché di un vero e proprio evento si trattava, di un appuntamento atteso e organizzato e partecipato, da molti.
A Casavecchia ogni anno un campo, non sempre lo stesso per ovvie ragioni di rotazione, veniva coltivato a mais.
Mais che, una volta raccolto, serviva da mangime per galline, galli, capponi, tacchini e faraone.
Mais che veniva raccolto rigorosamente a mano.
Ma non era un campetto, le sue dimensioni non permettevano ad un paio di persone di smazzarsi il lavoro da sole in poco tempo, e quando le pannocchie son pronte, specialmente se coltivate biologicamente, non si può rischiare di lasciarle sul campo troppo a lungo: parassiti e umidità possono compromettere il raccolto...e sarebbe un gran peccato.
Anche perché a quel punto, dopo aver speso per comprare le sementi e aver pagato il trattore per l'aratura e la semina, toccherebbe pure spendere per acquistare il mangime per le bestie, e tutte le buone intenzioni di tentare un po' di autosussistenza svanirebbero nel nulla, che già è abbastanza ardua come impresa.
Venivano invitati amici, parenti, conoscenti, curiosi e uomini di buona volontà.
L'appuntamento era per le 10 del mattino, la Casa offriva un'abbondante colazione, forniva guanti e mascherine a quanti fossero giunti sprovvisti.
Un consiglio...non spannocchiate mai senza un fazzoletto sulla bocca e sul naso, c'è veramente un polverone lì in mezzo, man mano che le pannocchie lasciano il fusto, e un cappello per difendere la vostra testa in caso di, probabile, sole e di, garantite, bestioline volanti di qualsiasi specie...
Così bardata l'allegra compagnia degli spannocchiatori, dopo essersi ben rimpinguata, secchio in mano si avviava verso il campo.
E si comincia: individuare la pannocchia, o le pannocchie (sono giusto un paio, a volte tre, per fusto), aprire bene le foglie secche che la avvolgono, strappare la pannocchia, gettarla nel secchio, piegare a metà il fusto spannocchiato per evidenziare e rammentare a sé stessi e agli altri spannocchiatori che di lì è già passato qualcuno e pannocchie non ce ne stanno più, inutile cercare.
Proseguire così, fino alla fine della riga.
Per praticità ognuno si sceglie una fila di pannocchie e tira avanti per quella, che altrimenti ci si incasina.
La fila sa essere molto lunga, ad un certo punto, e sembra non voler finire mai.
La fortuna è avere nella fila di fianco a sé qualcuno di molto abile e veloce, che terminando prima di noi decida di aiutarci invece di andare a ingozzarsi di pane, salame e formaggio.
Nel frattempo si chiacchera, si ride, si canta, si ascoltano aneddoti e storie di vita vissuta.
Una gran bella atmosfera.
Ogni volta che il secchio è pieno lo si svuota, passandolo di mano in mano, nel carretto del trattore, che avanza lentamente.
Quando il campo è ormai completamente spannocchiato, scatta l'applauso e tutti vanno darsi una necessaria quanto meritata rinfrescata.
Si è ormai fatto pomeriggio inoltrato, c'è fame e voglia di appoggiare le stanche chiappe.
La casa, in cambio del lavoro svolto dalla squadra di spannocchiatori, offre una lauta e godereccia cena: pasta e fagioli, verdure, formaggi, salumi, pane e vino a volontà, da gustare seduti attorno a un grande tavolo, rigorosamente all'aperto, meteo permettendo.
Io è così che ho conosciuto Casavecchia.
Era domenica, il primo ottobre di, ormai, cinque anni fa.
Il cielo era velato, l'aria umida e afosa, ma l'atmosfera era viva e frizzante.
Eravamo andati a vedere, a scoprire, a toccare con mano.
Perché c'era la possibilità che quel posto diventasse, anche, casa nostra.
Non più tardi di due settimane prima due nostri cari amici ci avevano buttato là una proposta.
Ma questa è un'altra, lunga, storia.
Dopo la prima, ci sono state, per me, altre tre spannocchiate.
La seconda il tempo era bello, ancora estivo, si fece gran festa, un mucchio di gente, amici, bambini, canti e balli. Un mese dopo sarei rimasta incinta, per la prima volta.
La terza, il cielo era grigio e nebbioso. Quella volta lavorai poco, quasi nulla.
La mia prima bimba aveva due mesi, dormiva stretta a me nella fascia e passeggiavamo assieme vicino al campo, davamo una piccola mano in cucina, ci lasciavamo coccolare.
La quarta e ultima, la mia prima bimba muoveva i primi passi da sola e nella mia pancia cresceva, di nuovo, la vita.
Sono bellissimi questi racconti, a volte tra le righe, del cohousing. Sono affascinata e proprio felice di leggerti :)
RispondiEliminaGrazie Squa!
RispondiEliminaNe arriveranno altri.
Ora che l'esperienza è, per me, definitivamente conclusa, essendo usciti da lì anche gli amici con cui avevamo iniziato l'avventura.
Sto elaborando molte cose, e credo che il raccontare potrebbe essere utile a chi vorrebbe tentare un'esperienza simile.
O anche a chi è semplicemente interessato a saperne di più.
A presto!
Tra l'altro ho ketto il tio commento su gc e l'ho trovato interessante e realistico per così dire.
Eliminaracconta, ti prego!
RispondiEliminati ho "scoperta" da momatwork e ti sto leggendo tutta, e' un piacere!
anna
@ anna: benvenuta!
RispondiEliminaSpero di riuscire a raccontare tutto il bello, ma anche il difficile, di quell'esperienza.
@ squa: era molto interessante e stimolante anche il post e il commentario che ne è scaturito, secondo me.
E ho avuto piacere di dire la mia, anche perché spesso in giro l'immaginario della campagna e della vita semplice è assai idealizzato ed edulcorato.
Bello e interessante. Mi hai fatto pure venire una certa fame... :)
RispondiEliminache bello!, mi piacerebbe portare i miei bambini a vivere una esperienza così... come faccio a mettermi in contatto con casavecchia?, dove sono?. Adriana.
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