Abito in un quartiere popolare dei primi anni 60.
Gli anni del boom, scoppiettanti e briosi, dell'Italia che galoppava felice e florida come un purosangue su verdi prati sotto cieli turchini.
Lo si vede anche da questa casa, che erano anni tutto sommato sereni, in queste palazzine modeste ma ben costruite, frutto di un'edilizia per cui popolare e proletario andavano a braccetto con solido , stabile, duraturo. Abitazioni, e non alloggi.
Semplici e sobrie, ma non per queste anguste e ammassate l'una sull'altra.
Modeste, ma mai misere.
Luminose e ampie, perchè di figli se ne facevano sicuramente più di adesso, e ognuno aveva diritto al suo spazio e alla luce del sole.
Gli spazi giusti, dentro e fuori. Le distanze appropriate tra porte e vicini, condomini più simili a villaggi che a casermoni, in cui la convivenza era relazione e non costrizione.
Le terrazze, una in cucina e una in salotto, una ad est ed una ad ovest: che un lenzuolo steso all'aria del primo mattino e una sedia da cui guardare le prime stelle della sera son dettagli che fanno la qualità della vita.
I cortili e gli orti al piano terra: ognuno il suo fazzoletto da coltivare, perchè il verde non dovrebbe mai essere esclusivo e privato. E anche perchè chissà quanti arrivavano dalla campagna per la prima volta in città. E passi lavorare otto ore in fabbrica, ma i pomodori appena raccolti dalla pianta, a quelli era più difficile rinunciare. O così mi piace pensare.
I garages al piano terra, che ora per molti fungono da magazzini e laboratori da bricoleurs della domenica: non tutte le macchine d'oggi entrano da porte pensate per Bianchine e 127.
Se dovessi descrivere queste case in un solo aggettivo sceglierei dignitose.
Se mi chiedeste se questa è la casa dei miei sogni vi risponderei no. Non lo è.
Ma so per certo che potrebbe benissimo essere la casa della mia vita.
E che potrebbe bastarmi benissimo per tutto il resto della mia vita.
Siamo tra i primi nuovi arrivati qui, novella famiglia degli anni Dieci. Iniziano a svuotarsi alcuni appartamenti anche nelle palazzine vicine. Ricambio generazionale, cose della vita, il tempo che passa e porta via.
Ma molti sono ancora qui. Ora pensionati, arrivati qui da giovani uomini, freschi padri di famiglia, novelli operai, le prime famiglie nate in ospedale e con i figli a scuola fino al diploma.
Ora vivono in due, solide coppiette gobbe, in appartamenti grandi e vuoti, che si riempiono la domenica di figli e nipoti.
Li vedo partire presto al mattino per andare al mercato, zappare l'orto nel primo dopopranzo, coltivare il balcone, uscire ogni giorno alle quattro per un giro in bici, spegnere la luce presto la sera, dopocena.
Alle nove qui attorno è tutto silenzio.
Sono il mio sogno segreto,la mia ambizione massima, il miraggio del miglior futuro che potrei mai desiderare. Una languida vecchiaia, seduta in poltrona, a sfogliare i ricordi di una vita modesta, ma mai misera. Appese al muro foto di luoghi lontani, Lui seduto al mio fianco, i figli felici, ovunque vorranno.
Il destino non è stato così dolce con tutti. Su alcuni si è abbattuto senza clemenza.
Ci sono persone sole, taciturne e scontrose, che celano dietro sguardi bassi storie che nessuno mai saprà. Ruvide come la corteccia di un albero, cupe come il più nebbioso dei gennai.
E anime buone, cesellate finemente dalle intemperie della vita, senza spigoli sul volto, nè carta vetrata nella voce. Un sorriso sempre dolce sulle labbra, come un cucchiaino di zucchero in un thè troppo amaro, troppo nero, servito in una tazza di porcellana, bianca, scheggiata e macchiata dal tempo.
C'è un signore, che anziano ancora non è, rimasto solo, troppo presto, troppo in fretta.
Un giorno è arrivata la malattia, lesta e funesta, a saccheggiare la sua placida vita di pensionato: l'orto, i mobili vecchi da restaurare, i vasi di conserva a testa in giù, le chiacchere con i vicini, e lei che si affacciava alla finestra, a salutarlo in brevi pause mentre era in altre faccende affaccendata.
Lo vedo ogni mattina. Spalanca le finestre, sbatte i tappeti, stende sul davanzale coperte e lenzuola. Qualsiasi tempo faccia, tranne che con la pioggia.
C'è qualcosa di struggentemente fiero in quei suoi gesti, in questa routine con cui ingrana la marcia ogni mattino.
Fa entrare la luce del mattino, a rischiarare zone d'ombra e mesti pensieri. Come se il freddo potesse portar via con sè da quelle lenzuola particelle di un dolore sordo e solo, che nel buio della notte deve pesare ancor di più. Per far uscire da quelle stanze una polvere vischiosa, densa e opprimente come veleno, prima di rientrarvi. Far arieggiare i locali, per non sprofondarvi.